Virtù e dannazione del melone nell’antichità

Il tema “delle virtù e della dannazione del melone” è un aspetto non trascurabile per la conoscenza della genesi di questo frutto dal sapore inconfondibile che spesso lo lega a significati simbolici spesso discordanti.

L’aspetto della fecondità che caratterizza il melone per suoi numerosissimi semi contenuti nella placenta interna, era nell’antichità contemplato come valore positivo al punto da riportarlo nei quadri e nei contesti pittorici dove si voleva esaltare la fertilità e la proliferazione.

In epoche più recenti, invece, è stato ed è ancora associato al concetto di sciocco e goffo, tanto che una persona stolta può essere soprannominata o definita “mellone” e per stupidaggine si usa come sinonimo “mellonaggine”. Angelo De Gubernatis (indianista e letterato, 1840-1913) sostiene che il motivo di tale associazione sia imputabile all’estrema fecondità di questi frutti, alla loro capacità generatrice incontrollata, opposta alla ragione di una intelligenza che sa sempre come moderarsi. Sempre come immagine contraddittoria, alcuni medici dell’antichità considerano il melone addirittura nocivo attribuendolo come causa della morte di ben quattro imperatori e due pontefici (forse per semplice indigestione?!).

Certo è che è sempre stato un frutto apprezzato dalla nobilità: Enrico IV di Navarra lo utilizzava come rimedio per la gotta, consumandone uno al giorno. Il naturalista romano Castore Durante nel suo Herbario nuovo del 1585 ammonisce di non abusarne, perché i meloni “sminuiscono il seme genitale”; ne sconsiglia l’uso a diabetici, ai dispeptici e a tutti coloro che soffrono di disturbi dell’apparato digerente, mentre ne sollecita il consumo a tutti gli altri, per le virtù rinfrescanti, diuretiche e lassative.

Anche gli scrittori fanno spesso riferimento a questo frutto da molti ritenuto meraviglioso, tanto da suggerirne speciali ricette o modalità di consumo così da renderlo maggiormente assimilabile.

Uno per tutti, Alexandre Dumas padre, che invita a “…mangiarlo con pepe e sale, e berci sopra un mezzo bicchiere di Madera, o meglio di Marsala”.

E proprio a Dumas si deve quella che possiamo considerare come una forma di “promozione pubblicitaria” ante litteram dei meloni di Cavaillon, così chiamati dalla zona di alta e qualificata produzione in Francia; alla Biblioteca di Cavaillon che gli chiedeva 400 volumi, propose lo scambio “in natura” con una rendita vitalizia di 12 meloni l’anno. L’offerta viene accettata e corrisposta fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1870. Il grande (e bizzarro!) scrittore riceve poi un ulteriore onore con l’istituzione, a suo nome, della “Confraternita dei Cavalieri dei meloni di Cavaillon”.